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À la plage

  • Immagine del redattore: Camilla Maccaferri
    Camilla Maccaferri
  • 26 giu
  • Tempo di lettura: 3 min

Cammino lentamente, un piede nudo davanti all’altro, sulla sabbia bagnata ed elastica. Da almeno due anni e mezzo non facevo più una passeggiata senza meta, senza tempo, senza dover riempire lo spazio tra un impegno e l’altro, senza musica, senza podcast, senza pensieri. 

L’acqua fredda ogni tanto mi lambisce le dita che si ritirano come lumachine spaventate da un rumore improvviso, mentre provano ad affacciarsi timidamente dal guscio. 

C’è un bambino intento a costruire qualcosa con la sabbia: è concentrato come un monaco a tentare di arpionare una medusa morta con il gancio di una gru giocattolo. Una piccola minatura giallo ocra e nera che sembra in tutto e per tutto un mezzo vero. La sua dedizione al lavoro è assoluta. Penso che facciamo tante fatiche e spendiamo tanti soldi in questa assurda società per imparare di nuovo a concentrarci,

a difenderci dal morbo della distrazione capitalista e dal suo sintomo più atroce, la notifica. Compriamo app, cuscini, campane tibetane, seminari da guru della mindfulness  e ritiri di yoga senza accorgercerci che salvarci dal capitalismo è diventato un business squisitamente neoliberista. Ci illudiamo di essere superiori agli altri, quegli zotici digitali, perché chiudiamo gli occhi venti minuti al giorno fingendo di essere nella giungla o sotto una cascata. Ci pensiamo spiritualmente elevati perché un gong artificiale ci ricorda di alzarci e respirare. E non vediamo che basterebbe sedersi a osservare un bambino piccolo, la sua ostinata, irragionevole pervicacia nel perseguire un obiettivo futile e irrinunciabile a un tempo, per ritrovare la capacità di essere nel momento. Come quando piantavamo chiodini colorati per ore, scavavamo buche o mettevamo in fila sassolini. Tutti avvolti da un dialogo con noi stessi, alle prese con un intima permanenza dell’io puro che non ammetteva intromissioni dall’esterno. Cosa importa se è pronta la cena o è ora di lavarsi i denti, se tutti questi maledetti mattoncini non sono ancora impilati. Un attimo mamma, devo stare nel qui ed ora, finché ancora sono capace di farlo senza dover pagare una voce robotica che mi chieda di pensare a una palla di luce nel mio ombelico.


Un uomo sulla sessantina si tuffa, le onde sono rabbiose nel tardo pomeriggio ventoso. 

Si allontana, scompare e riappare. Nuota ancora più in là, nuovamente si inabissa e nuovamente rispunta la sua testa canuta.

Finalmente ho il tempo di osservare, ascoltare, annusare intorno. C’è odore di salsedine, pezzetti di conchiglie che mi toccano le piante dei piedi, lo sciabordio delle onde e il vento che soffia sulla pelle arrossata.

La testa bianca continua ad apparire e sparire, sempre più lontana.

Il bagnino sulla torretta di salvataggio è piegato sullo smartphone, gli occhi imperscrutabili dietro alle lenti scure. Non mi sembra che senta la brezza, l’aria salata, gli schizzi di acqua fredda.

Ha il collo flesso verso il basso come una giraffa che sta bevendo e non si alza mai. 

L’uomo è sempre più lontano, la testa riaffiora a intervalli sempre più lunghi. Non sembra agitato, sembra quasi che stia cercando la deriva. Però potrei sbagliarmi, potrebbe essere in difficoltà, forse ha bisogno di aiuto, forse.

Guardo il bagnino, la testa sempre più incassata tra le spalle, come una steroidea, lucida tartaruga dalla pelle color bronzo bruciato. La bocca semiaperta, immagino i suoi occhi spalancati come uova fritte dietro le lenti scure, instupiditi dall’eterno scrollare di inutilità che lo risucchia come un osceno maelstrom esistenziale.

Dovrei richiamare la sua attenzione.

Guardo ancora l’orizzonte, cercando la testa bianca che affiora un’ultima volta e poi, non ne sono sicura, ma mi sembra proprio che un braccio si levi in un gesto di saluto. Rivolto a me? Mi guardo intorno.

Oltre al bagnino risucchiato, ci siamo io e il bambino, che continua ostinatamente a cercare di arpionare la medusa morta. 

Alzo incerta un braccio e lo sventolo all’orizzonte.

Mi giro a guardare la torretta di salvataggio: vorrei gridare ma la voce mi muore in gola. Il bagnino continua il suo gesto indifferente, da su a giù, come un tessitore del nulla. 

L’uomo scompare.


La brezza mi rinfresca le spalle bruciate, la schiuma mi accarezza i piedi, il bambino finalmente esulta, entusiasta di aver completato il suo difficile compito, e inizia a battere con regolarità la paletta sulla sabbia bagnata. Pat. Pat. Pat. Sono qui. Pat. Pat. Pat. Adesso. Pat. Pat. Pat.

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