La storia di un uomo grasso che amava il mare.
Ruminava da almeno quattro ore fissando fuori dalla finestra, quando all’improvviso il sacchetto di carta marrone si afflosciò. Tutt’intorno uno spettacolo desolante, un campo di battaglia di elefanti: gusci pesticciati di arachidi che si erano infilati persino sotto il suo monumentale fondoschiena e che, a ben pensarci, lo irritavano alquanto.
Era buio pesto. Mollemente girò il collo taurino verso la parete: le due. Ovviamente non stava guardando nulla fuori, ma da quando la sua unica ed adorata figlia era andata a vivere a Lisbona, gli capitava sempre più spesso di perdersi nel vuoto. Gli mancava sinceramente qualcuno con cui scambiare due battute e, anche se si sentivano tutti i giorni, non era la stessa cosa. Al piano di sopra, un’orrenda megera in bigodini e camicia da notte color vomito riposava dalle 23 perché, gracchiava, “il mattino ha l’oro in bocca”, e si alzava ogni santo giorno all’alba a sfaccendare.
Ormai non si divertiva più a chiedersi perché mai avesse sposato un essere del genere. Con la tipica rassegnazione dei mariti infelici, fingeva di non sentire le sue reprimende o le sue inquisitorie a raffica, o rispondeva con rantoli soffocati di malcelata sopportazione. Poi si chiudeva nella cantina, dove nascondeva colossali scorte di cibo segrete, a sfogliare i suoi libri preferiti, sul mare ed i suoi abitanti. Usciva di casa solo per fare la sua spesa privata.
A tavola, mangiava finocchi bolliti, minestrone e altre sconcezze iposodiche che la befana, ipertesa, gli propinava senza concedergli diritto di replica. La moglie, in effetti, non capiva come potesse continuare ad ingrassare in quel modo: lo costringeva a un regime alimentare degno di un’anoressica diva di Hollywood. Aveva controllato centinaia di volte la vecchia Ford, l’armadio, il cassetto delle mutande per assicurarsi che non avesse razioni di cibo nascoste, ma non aveva fatto i conti con l’impiantito semimarcio della cantina, dove, proprio sotto le bottiglie di vinaccio artigianale, riposavano beate le scorte di Italo. Accanto, le sue sigarette, altro piacere che la Tisifone, come aveva soprannominato in segreto la moglie, gli aveva negato.
Si alzò, sbuffando e grondando come appena uscito dall’acqua, si grattò la smisurata prominenza anteriore e si chinò a raccogliere i resti del suo spuntino notturno. Al piano di sopra un improvviso ciabattare seccato, lo sciacquone del bagno: sua moglie, sveglia! Si affannò come un pazzo nel cancellare le sparsissime tracce della sua trasgressione, con le grida isteriche che già gli ronzavano nelle orecchie: come un bambino obeso afferrava con le mani grassocce le bucce che nel contempo gli balzavano fuori dai palmi sudati, dispettose. Corse con balzi sgraziati alla pattumiera e si disfò del corpo del reato sospirando di sollievo.
“Italo, cosa fai ancora sveglio? Sono le due passate! Sei proprio impazzito del tutto? Muoviti!”
Ma non poté replicare con il solito rantolo, perché la testa iniziò a girargli così in fretta che tutto gli sembrò diventare liquido e sciolto e nero.
Si svegliò dopo mezzogiorno, affossato nel divano sfondato con le vecchie molle che gli pungevano con cattiveria il dorso largo da bestia da soma. La Tisifone lo fissava dalla sedia accanto, gli occhiali appannati e il brutto muso più che mai rattrappito in una ben nota smorfia di disapprovazione. Puntandogli il dito adunco contro, sciorinò querula accuse tremende. Mentre la moglie parlava, ad Italo sembrò di incominciare a ricordare cos’era successo. Era venuta di corsa la guardia medica, aveva diagnosticato un collasso e gli aveva ficcato con malagrazia una flebo nel braccio, dopo avergli sforacchiato il grosso posteriore di iniezioni.
“E tra poco” chiosò la strega “il dottore sarà qui per le analisi, e per te saranno dolori. Spero che allora tu ti renderai conto che la tua situazione è gravemente compromessa e che se non ti decidi a metterti a dieta, non ti resterà poi molto da vivere! Dovresti vergognarti…”
Italo si perse il resto della reprimenda: avrebbe voluto dire che non gli pareva il caso di farla così tragica ma aveva la bocca impastata e si sentiva spossato. Reclinò la testa ottenebrata sul cuscino e si assopì dolcemente.
Il dottore venne e non era mai stato così furioso. Dopo aver constatato, se mai ce ne fosse stato bisogno, che il quadro clinico del paziente era a dir poco allarmante, descrisse con precisione le cause di morte, una più tremenda dell’altra, che l’avrebbero atteso se avesse continuato a quel modo.
“Il respiro è affannoso, il cuore affaticato, così non va! Ti concedo qualche giorno di riposo, poi dritto all’ospedale per analisi di sangue e urine e prevedo che avrai tutti i valori fortemente sballati rispetto ai parametri regolari. L’obesità è una cosa seria, Italo, non è uno scherzo da barzelletta. Sei padrone della tua vita, ma devi sapere che se non correrai immediatamente ai ripari, il rischio sarà altissimo e io non mi ritengo responsabile di quello che potrà accaderti!”
Umiliato come un bambino pescato con le mani nella marmellata, come quando veniva scoperto dalla moglie a frugare nella dispensa, Italo chinò il capo, rosso di vergogna. Non paga, la vecchiaccia si lamentò strillando che la notte prima avevano dovuto adagiarlo sul divano perché troppo pesante per trasportarlo a braccia su per le scale e continuò la sua cantilena querula implacabile, assicurando al dottore di non cucinare mai cibi grassi.
“Si figuri che non compro neppure il burro! Ma evidentemente mangia fuori casa, di nascosto. Mi dica lei, cosa devo fare? Si comporta proprio come un bambino, non dà retta a nessuno…”
Bla bla bla. Come al solito, si era disconnesso e pensava ad altro: per evitare di impazzire ora che la Tisifone aveva ottimi motivi per tartassarlo, doveva concentrarsi totalmente su di sé. Allungò distrattamente una mano verso il tavolino, prese il suo ultimo acquisto, “Cetacei del Mare del Nord”, costosissimo volume con splendide fotografie, e si immerse nella lettura.
Italo amava il mare perché era nato e cresciuto sul mare. Il padre pescatore, come tutti i suoi parenti prossimi, da bambino trascorreva gran parte del tempo sulle barche. Ottimo nuotatore e vero uomo di mare, era stato un ragazzo sportivo e scattante. Amava tutto del suo ambiente naturale e gli sembrava di non poter vivere lontano da lì. Solo al largo, circondato da un nulla azzurro e salmastro, si sentiva libero e in pace con se stesso. A casa.
Circostanze strane però l’avevano portato via, in una grigia e nebbiosa pianura, inquinata, maleodorante, ottusa e triste. Aveva seguito il suo primo, vero amore, e l’ombra avvilente di un lavoro come impiegato comunale. Si era stabilito in uno squallido monolocale, con vista fabbriche, dove attendeva tutte le sere l’unica sua ragione di vita, ora che non aveva più il mare. Le cucinava ogni volta qualcosa di buono, perché entrambi amavano i piaceri della tavola, erano magri e soddisfatti. Una sera però lei non era venuta. Aveva deciso che Italo era troppo dolce e remissivo, che aveva bisogno di un uomo vero che non le cucinasse cenette e che allungasse i piedi sporchi sul tavolino di cristallo. In quel momento, lui capì di aver rinunciato a una vita felice per amore di una povera cretina. La ferita si rimarginò in fretta, ma ormai aveva il tanto ambito posto sicuro, aveva una casa. Per la prima volta, Italo decise di rassegnarsi, forse presentendo il leitmotiv della sua vita. Cominciò a consolarsi cucinando solo per sé, a ingrassare vistosamente. Trovò il suo equilibrio nella sazietà di quel ventre sempre più tondeggiante e pretenzioso. Si raccontava di star bene. Lo raccontava alla sua famiglia, nel fine settimana, e sospirava il suo iodio a scadenza programmata.
Quando stava per compiere 35 anni, i suoi iniziarono timidamente a interrogarlo sulla sua vita amorosa e lui capì che avrebbero tanto voluto che si sposasse. In ossequio alla sua filosofia esistenziale, cercò svogliatamente al cineforum del paese un contatto con l’altro sesso. Era ormai evidentemente grasso e sciatto, non si pettinava e portava sformati pantaloni di velluto a coste e cardigan tesi sul pancione. La Tisifone, occhiali da civetta e tallieur di tweed, lo avvicinò con piglio deciso, attaccò stridula bottone. Ancora una volta, Italo piegò la testa arruffata e la invitò a uscire. Un anno dopo erano sposati, la Tisifone incinta. L’ultima vera gioia nella vita triste dell’uomo si era incarnata in una rosea pagnottella di figlia che ora, cresciuta, era volata lontana da lui.
Nell’acqua azzurra, verde, blu, nell’acqua fredda, che taglia il cielo grigio, una lastra di ghiaccio a specchio. Mi tuffo, mi immergo, è l’acqua salata, buona, che mi disinfetta dentro, che scorre gelida in me, quasi mi brucia, ma non rabbrividisco, sono avido, la filtro, la bevo, la sputo. L’acqua mi nutre, mi avvolge, è la mia casa, mi protegge la notte, è la mia famiglia. Sono così felice che canto una melodia dolcissima, stupenda, il mio inno di grazie all’acqua che è la mia religione. Pazzo di gioia vortico giù, tocco il fondo con la pancia, uno sforzo e sto già sfrecciando su, vedo la luce, vedo l’ombra, la lamina tremula davanti ai miei occhi, la infrango e salto nel cielo per un istante infinito, poi ricado, mi avvito, danzo meraviglioso, pieno di grazia e leggero leggero.
“Italo! La medicina!” Passi frettolosi, aspri e nervosi salirono le scale. Italo trasalì, non capiva, poi realizzò. Stava fantasticando ancora con uno dei suoi libri tra le mani. Amava il mare perché lo faceva sentire così. Avrebbe dato qualsiasi cosa per essere un pesce. Per provare davvero quelle sensazioni che tante volte aveva immaginato. Quelle sensazioni di essere padrone di se stesso, quell’insensata e infantile evasione che lo faceva sentire vivo. Mentre invece, lì, nel letto sfatto, c’era una grassa carcassa, una balena arenata che imputridiva al sole e un baleniere aguzzino con il suo rampone appuntito. ”Sono stanca di dovermi ricordare tutto io, mando avanti la baracca e tu qui, nel letto, obeso per scelta e assistito per forza. Spero che il dottore ti faccia rinchiudere in una bella clinica per dimagrire, almeno ci penseranno loro a te!” La Tisifone gli cacciò il cucchiaio in bocca. Amara, puzzolente, oleosa medicina. Niente a che vedere con quell’acqua pura che lo richiamava dalla pagina. Italo fece per inghiottire, poi gettò un’occhiata al libro e, con un sogghigno interiore, risputò la broda sulla faccia rugosa della moglie.
La stanza era caldissima, un forno soffocante. L’aria rarefatta al massimo per via dei termosifoni: Italo aveva la gola secca. Tossiva cercando di schiacciare il più possibile il faccione nel cuscino, la testa sotto la coperta ma sentiva le guance tremolare, il petto largo scuotersi tutto e immancabilmente gli sfuggiva un rantolo fastidioso. Non voleva svegliare il vecchietto. Era così gentile con lui, una persona deliziosa. Durante il giorno non poteva riposare per via delle terapie, non voleva sottrargli le ore notturne di sonno. Si odiò per la sua tosse impertinente. Flebile, l’omino tentò di rassicurarlo:
“Non faccia così, sa, ero già sveglio, non si soffochi per carità”. Imbarazzato, Italo sprofondò ancora di più nel molle giaciglio. “Sono mortificato. Ho fatto di tutto per non fare rumore ma questo caldo mi secca la gola e…” Una debole risata lo interruppe. “Senta Italo. Avrò tanto di quel tempo per riposare…insomma...lei capisce. Non sono giovane e non sono sano. Quel che mi resta, preferisco vederlo da sveglio. E poi i vecchi non dormono, specialmente chi come me se ne sta a letto tutto il giorno. La notte è una tortura stare sdraiati, immobili. Non posso neanche rigirarmi per via di tutti questi tubi e mi vengono certi pensieri…sono contento che lei sia sveglio, invece. Così ci facciamo compagnia”.
Italo sorrise nel buio, quell’uomo aveva il prodigioso potere di mettere a proprio agio le persone. Anche chi si sentiva un grasso pasticcione che faceva cigolare le molle del letto a ogni minimo movimento.
“Quando la dimettono?” Chiese il vecchietto. “Mi mancherà. È una persona tranquilla e simpatica, un giovane educato…per me è importante avere un buon compagno di stanza, visto il tempo che trascorro qui”. Italo sorrise. Non pensava a sé come un giovane almeno dalle superiori.
“Non lo so di preciso, credo la settimana prossima. Poi mia moglie vuole assolutamente che mi ricoveri in uno di quegli istituti per dimagrire. Se devo essere sincero, a me di dimagrire non importa un bel niente”, sospirò irritato.
“La devo sgridare, sa. Lei potrebbe avere la salute e la disprezza. Io sono costretto qui e non posso fare niente. Le pare giusto? Se potessi scegliere di certo mi impegnerei per rimettermi in sesto. E non è solo per la salute. Scusi se sono indiscreto, ma l’altro giorno ho sentito sua moglie parlare con il dottore, diceva che è ingrassato ancora invece di dimagrire. Non le interessa davvero...”
“Non mi interessa niente!” Sbottò Italo. “La mia vita non mi interessa. Non ho motivi per interessarmene. Non è la vita che volevo. Mi è capitato tutto.” Italo ascoltò questo sfogo come se fosse stato di un'altra persona. Era la prima volta che poteva mettersi davanti ai fatti compiuti, invece di fuggirne.
“Sa, è una cosa molto brutta quella che ha appena detto. Io non voglio andarmene perché ho una brava moglie e le voglio bene. Ho dei nipotini da curare, ho il mio orto da fare andare e ho due gatti. E queste cose da niente rendono la mia vita degna di essere vissuta. Ma lei, così giovane, è già bell’e morto caro mio! E prima che sia troppo tardi, faccia qualcosa per tirarsi fuori dalla fossa che si sta scavando, glielo dico io, che potrei essere suo padre”.
“Ma cosa potrei fare?”
“Dipende da lei. Cosa voleva diventare nella vita, cosa pensa che l’avrebbe resa felice?”
Italo guardò fisso davanti a sé.
“Il mare”. Disse deciso.
“Voleva essere ammiraglio? O lavorare su un peschereccio, o come portuale?”
“No.” Si portò le mani sul ventre, schiacciò le sue pieghe adipose nervosamente. “Volevo essere un pesce”. Disse e si girò su un fianco con un gran cigolio di molle.
Quella notte, Italo fece un sogno strano. Sognò di essere sepolto in una buca profonda, dai lati stranamente cedevoli, che gli impedivano di risalire. Per lui, claustrofobico, era una vera tortura. Sudava e si agitava, tentando disperatamente di uscire all’aria aperta e finalmente veniva scaraventato in alto da un getto d’acqua. Ricadeva a terra senza farsi male, come accade nei sogni, e il suo compagno di stanza sorridendo gli diceva: “La balena ti ha fatto uscire dalla tomba del tuo grasso.”
Il mattino seguente Italo guardò quell’omino saggio: sembrava perso nel bianco delle lenzuola scadenti, si consumava a vista d’occhio. La flebo nel braccio dava l’impressione di prosciugare goccia a goccia quel corpo trasparente. Si sentì ancora più grasso e stupido.
“Va meglio stamattina?” Il vecchietto sorrise al compagno. “A volte la notte porta consiglio”.
“Certo”. Italo si sentì un nodo in gola mentre lo vedeva evaporare, e ciononostante riuscire a essere gentile. “Va molto meglio. Vado a prendere il giornale, giù al chiosco e glielo porto”. Traballando sulle ginocchia oberate dal peso, uscì più in fretta che poté e cercò un abbraccio lipidico nella macchinetta degli snack.
Guardava fuori dalla finestra: verdi, noiosissimi, stupidi pascoli a perdita d’occhio. Movimentati da mucche sparse e ruminanti. Le invidiò con cattiveria, poteva sentire il bolo di fieno scendergli nel primo stomaco, ritornare e inabissarsi di nuovo, in un’imbarazzante catabasi digestiva. Mentre lui ormai da due mesi non aveva niente da digerire, se non ridicole foglie di lattuga e robetta molle integrale. Erba, per carità, ma se fosse stato un bovino almeno ne avrebbe avuta a volontà. La sua condizione era veramente deprimente e l’elastico del suo pigiama gli lacerava le carni come filo spinato: da quando la Tisifone l’aveva internato, era ingrassato di almeno dieci chili. Nonostante i litri d’acqua, il diuretico e la ginnastica quotidiana, che avevano dovuto ridurgli drasticamente, dal momento che non era in grado di compiere gran parte degli esercizi senza rischiare uno scompenso cardiaco. Questa volta però, era la personificazione dell’innocenza: durante le prime settimane aveva spesso trasgredito sgattaiolando all’osteria del paese per improbabili polentate mattutine o stufati con il sugo all’ora del tè, ma dopo la terrificante reprimenda di un’inferocita moglie, amplificata da un dietologo al vetriolo sul limite dell’isteria, aveva fatto sul serio. Niente più strappi, nemmeno un bocconcino, a costo di passare notti insonni, lo stomaco accartocciato in una morsa letale, a vaneggiare come un profugo di guerra di cibi sugnosi e unti. Tuttavia la sua obesità continuava inesorabilmente ad aggravarsi, gettando il personale medico nella costernazione più profonda: sembravano bambini dispettosi al cospetto della Tsifone che impazzava durante la sua visita quindicinale, chiedendosi come fosse possibile che si stesse verificando quella situazione paradossale. Quel marito sempre più strabordante e rantolante che aveva ormai l’aspetto e la consistenza di un pallone aerostatico appena gonfiato, la pancia tesa a superare di innumerevoli lunghezze l’orizzonte perduto dell’ombelico. Negli occhi vacui di Italo si leggeva lo sconforto, la nostalgia del potere sedativo del cibo: era chiaro che lui non aveva nessuna responsabilità circa il suo inspiegabile aumento di peso.
Lo testarono come un alieno sospettando qualche arcana disfunzione che, nascosta nel buio cavernoso del suo corpo sformato, continuava a farlo lievitare come un triste impasto. Non trovando nessuna causa scientifica, cominciarono a pensare che avesse forti problemi psicologici. Lo sottoposero a deprimenti colloqui settimanali con una donna dai capelli stopposi che portava occhiali con una montatura ridicolamente sfarzosa. Lei disse che il paziente si rifiutava di collaborare solo perché Italo non riusciva a cogliere un legame tra il suo incontrollabile aumento di peso e il rapporto con il suo trenino preferito, ma Italo davvero non trovava il bandolo, nella matassa di lardo che gli si annodava nello stomaco.
Fu quando cominciò ad avere problemi di respirazione, però, che le cose precipitarono davvero: si svegliava nel cuore della notte in apnea, veniva colto da fortissimi dolori al petto mentre passeggiava intorno alla clinica, faticava a masticare le sue pappe zero grassi. La Tisifone impazzì, urlando che le stavano uccidendo quel che restava del marito e lo fece ricoverare un’altra volta all’ospedale, dove nuovamente infierirono su quello che era diventata la curiosa distorsione di un uomo in un carosello delirante di aghi, sonde e biopsie.
Italo era stupito di tanta considerazione e preoccupazione quando, apnee a parte, si sentiva benissimo. Sdraiato e ormai incapace di fare altro che fissare il soffitto, poteva ancora afferrare con le mani gonfie uno dei suoi libri e, ansimando, appoggiarlo sull’enorme ventre per sognare ancora del mare. Non doveva pensare ad altro, ora che era diventato socialmente invalido. Poteva raccontarsi storie di libertà e riderne tra sé mentre la moglie saltellava istericamente da una corsia all’altra alla ricerca del primario. Forse questa era la pace che aveva sempre desiderato. Ricordava il vecchietto gentile e fragile e sperava che anche lui avesse potuto sperimentare quelle dolci sensazioni di oblio, quel galleggiare annebbiato dalle medicine, quell’aldilà sintetico che toglieva di mezzo tutte le preoccupazioni terrene.
Suonava il campanello in preda al panico, non poteva più respirare e stava esplodendo, sentiva la sua pelle tendersi al massimo, strappare il largo camicione che lo ricopriva e poi d’improvviso c’era odore di gomma, stava respirando ancora, una minuscola mascherina premuta sul volto paonazzo. Il rassicurante alzarsi e abbassarsi del torace appesantito e l’iniezione lo accompagnarono nel consueto turbine nero, ancora una volta artificialmente pacificato.
L’ossigeno era ormai un’abitudine irrinunciabile ma ancora non sapevano perché quell’uomo grottesco, esagerato, che tracimava anche dalla branda continuasse a crescere e non riuscisse più a respirare. L’orrenda megera che lo assisteva sembrava prosciugarsi proporzionalmente, come se andasse a dormire in un essicatoio, e i suoi capelli color topo erano ormai una catastrofe ambientale. Ma Italo era sempre serafico, nonostante le crisi, nonostante il peso, contento di pensare agli abissi e alle onde che si inseguivano attorno ai tubicini delle flebo, divertimento privato e gratuito che lo faceva sentire vivo.
Una volta ebbe una crisi mentre lo stavano umiliando con il rito delle spugnature e la giovane inserviente, in preda al panico, provò a passargli la spugna sul viso, per rinfrescarlo: la respirazione tornò rapidamente normale e da quel momento Italo pretese di essere bagnato all’insorgere delle difficoltà respiratorie, riuscendo così a controllare gli attacchi. Gradualmente la spugna non bastò più e dovette immergere la testa in un catino d’acqua, sempre più spesso. Era pazzesco, dicevano i medici, che bastasse così poco per frenare quei terribili episodi, ancora più rischiosi per via della situazione gravemente compromessa, e come sempre non capirono cosa stesse accadendo ma, affidandosi al puro buonsens,o decisero di immergerlo in una vasca per testarne le reazioni. Ormai le dimensioni che Italo aveva raggiunto richiedevano misure speciali, così veniva portato ogni mattina alla piscina per la fisioterapia e lasciato a mollo fino a sera. L’uomo sembrava rinato, anche se non accennava a dimagrire, e galleggiava con agilità sorprendente, dopo mesi di immobilità forzata. Felice come non mai, salutava appena la Tisifone, per poi tornare in immersione, sfidando sé stesso a resistere sempre di più sott’acqua, sperimentando tutti gli stili che conosceva e inventandone di nuovi.
“La situazione potrà sembrarle paradossale, me ne rendo conto, e anche noi non sappiamo bene che pensare ma…”
Spazientita, la Tisifone battè un piede a terra. “La faccia corta e mi dica cosa c’è. Che non ci sia più niente da fare ormai è chiaro, mi sono rassegnata, sa? E non voglio lo psicologo. So cosa mi aspetta. Vorrei solo capire qual è la causa, dottore.”
Il medico si tolse gli occhiali, li pulì lentamente nel camice e se li rimise. Si passò una mano tra i capelli e si costrinse a fissare quella donna orrendamente rugosa. “Il punto, signora, è che apparentemente non ci sono cause ma, vede, suo marito sta attraversando una trasformazione importante, che potrei tranquillamente definire un unicum perché a livello internazionale…”
“Insomma dottore! Le ho detto di dirmi cosa c’è!”
L’uomo sospirò profondamente.
“Che lei ci creda o no, signora, i polmoni di suo marito stanno diventando branchie e la pelle ha bisogno di restare umida per permettergli di respirare. Suo marito può vivere solo in acqua. La prego, non mi faccia domande. Qui ci sono le radiografie e tutto il resto”.
“È tutto pronto, l’imbragatura è a posto.”
“Tiratelo su, piano! Così, ora di qua, di qua!”
“Nella tinozza, cercate di non versare troppa acqua, già nel trasporto ne perderemo un po’”
“Lei signora, vuole sedersi davanti o resta nel rimorchio con…lui?”
La Tisifone si asciugò gli occhi in fretta. “No, resto. Devo…salutarlo.”
Disse, la voce rotta da un singulto improvviso. La figlia, con le gambe a mollo nell’acqua, accarezzava con i piedi quello che sembrava un grosso involto nero. Suo padre.
“D’accordo, allora chiudiamo lo sportello. Se vi serve qualcosa, chiamate con il cellulare. Un paio d’ore e saremo arrivati.”
Italo sapeva che erano gli ultimi momenti che trascorreva con la sua famiglia ma non sapeva se avrebbe voluto dire qualcosa, potendo. Un nodo gli stringeva quella che una volta era stata la gola ma si sentiva anche terribilmente in colpa, perché non era mai stato così felice in vita sua. Stava andando verso il mare. Verso la libertà. Avrebbe sentito l’acqua infinita circondarlo, si sarebbe tuffato e sarebbe durato per sempre. Immerso nella sua fantasia, smise di ascoltare i singhiozzi e le parole gentili e nostalgiche della moglie e della figlia. Sapeva che ormai stava andando in un’altra direzione. Apparteneva a se stesso e al mare e a nessun altro. Chissà, forse si sarebbe potuto rifare una vita, con i suoi simili, una nuova famiglia. La Tisifone e la ragazza ormai piangevano disperate, gli occhi rossi, i volti gonfi e deformati dal dolore. Italo ebbe un ultimo moto di compassione mentre il camion si fermava, lo sportello si apriva e l’odore del mare lo invadeva.
Poi non poté più fingere: stava scoppiando di gioia ed era tutto così sublime che cominciò a cantare.
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