Cronaca di una notte lynchiana su un'isola delle Andamane.
Avrebbe voluto sentirsi incredula ed eccitata per la sua prima volta su un'isola tropicale, forse un po' colpevole, per via del fango e della miseria cambogiana ancora negli occhi, ma egoisticamente, crudelmente soddisfatta. Invece era solo esausta. Si trascinava beccheggiando sul pontile con l'enorme zaino in spalla, l'odore di fritto a intasare ogni singolo poro, dopo la notte trascorsa a contorcersi sulle panchine di metallo di Suvarnabhumi, il gigante in vetroresina.
Si accasciò sul lurido traghetto dai sedili sfasciati, degnando appena di uno sguardo cisposo i faraglioni e la palude di mangrovie.
“Svegliami quando siamo arrivati”, sbadigliò perdendo i sensi sulla spalla, fritta, di lui.
Un paio d'ore più tardi era immersa in una laguna verde tiepida, come una vasca termale, circondata solo da palme e impalpabile sabbia bianca, una distesa di zucchero a velo su cui sfrecciavano minuscoli granchietti immacolati. Maledisse dentro sé tutti quei retaggi stantii di ideologie terzomondiste che avrebbero voluto farla vergognare di essere lì, da banale, ordinaria turista ai tropici, con un cocco in mano a prendere il sole come nelle barzellette della "Settimana Enigmistica”. Perché lì, in quel momento, era tutto assolutamente perfetto. Le sembrava di non essere mai stata meglio. Decise di smettere di vivere come se necessariamente gli stereotipi fossero stupidi: come suggeriva la pubblicità dell'Alpitour, stare ai tropici era bellissimo. Alla faccia delle vacanze fricchettone in Croazia con il sacco a pelo. Era lì che voleva invecchiare e morire, guardando il tramonto insanguinare il mare delle Andamane. Decise anche che avrebbe dovuto presto trovare il modo di fare tanti soldi. O per lo meno, abbastanza soldi da potersi permettere un viaggio del genere con regolarità. Una settimana a visitare cose, per mettere del tutto a tacere quella specie di spiritello sinistroide che si nascondeva da qualche parte nel suo cranio, e qualche giorno di relax tropicale.
Fissava il cielo sdraiata sul pelo di quell'acqua incredibilmente calda e si sentiva piena di amore, gratitudine, spiritualità e altre cose graziose.
Era troppo caldo per dormire abbracciati, ma erano troppo stanchi per rendersene conto. Mescolavano il loro sudore all'umidità del pomeriggio thailandese con un sorriso di beatitudine stampato sui loro volti rilassati nel sonno. Era solo il primo giorno a Phi-Phi Don. Ne avevano altri tre davanti. La vita era meravigliosa.
Scollò a fatica le palpebre di un occhio e alzò debolmente la testa, che le girava, come ogni volta che si addormentava nel pomeriggio. Qualcuno aveva bussato? No, impossibile. Le pareti dei bungalow erano molto leggere, probabilmente erano i loro vicini. Le era sembrato anche di aver sentito un messaggio sul telefono, ma lì dentro non c'era campo. Lo guardò: continuava a dormire profondamente. Doveva essersi sognata tutto. Tornò a sprofondare tra i cuscini perdendo dolcemente coscienza.
Si svegliarono e fecero la doccia per scrollarsi di dosso quella patina appiccicosa. Era tutto così pacifico, così silenzioso… uscì in accappatoio sul balcone di legno vista mare, per lasciare che l'aria calda le asciugasse i capelli mentre dall'albero nodoso lì accanto cadevano mille petali bianchi. Prese il telefono, un messaggio. Allora aveva sentito bene, prima. “Volevo solo sapere se state bene, c'è stato un terremoto in Indonesia, è partito l'allarme tsunami...dove siete di preciso?”
Imprecò. Maledetta lei, i suoi amici e la loro collettiva mania di fare scherzi stupidi. Come quella volta che era in America e avevano raccontato in giro che era rimasta incinta di un nero sconosciuto e non poteva abortire perché era una gravidanza a rischio. O quell'altra in cui avevano finto che una di loro era fuggita con un indio dell'Amazzonia sul red carpet del Festival del cinema di Venezia. Era ora di finirla con le zingarate, alla soglia dei trent'anni. E poi questa non era affatto divertente.
D' improvviso l'atmosfera si era fatta irrespirabile, il silenzio pacifico aveva assunto un'aria tombale: gli uccelli e gli insetti si erano ammutoliti. La spiaggia era completamente vuota. I viottoli tra un bungalow e l'altro deserti.
Si sentirono all'unisono pervadere da un istinto primordiale, da un grido interiore di quello che muove gli animali lontano dal fuoco e dalla tempesta, e allo stesso tempo furono paralizzati, incapaci di trovare dei vestiti, di pensare a una successione logica di azioni. Indossarono gli abiti più inadeguati possibili, afferrarono solo i cellulari, inforcarono tremando le infradito e corsero a perdifiato, sperando, pregando di imbattersi in qualunque segnale di normalità. Bagnanti, inservienti con le loro magliette arancioni, qualche maledetta persona che sedesse a bere una fottuta birra Chang sui dondoli di legno.
A ogni singolo passo, la gola si faceva sempre più stretta, il respiro sempre più affannoso. Da paradiso terrestre, l'isola si era trasformata in villaggio fantasma.
Finalmente scorsero degli uomini sulla spiaggia, seduti a contemplare l'orizzonte. Tranquilli, silenziosi come l'aria intorno. Non risposero alle loro domande, li guardavano con una strana luce negli occhi, tra lo scherno e la compassione.
Detestandosi, sentì le lacrime bruciare e la sua voce stridula, fuori controllo che supplicava spiegazioni, mentre la sua mente si incrinava rapidamente, pronta ad andare in pezzi, mentre il mare sembrava ancora più infinito di poche ore prima, e la sua acqua verde aveva assunto toni terrificanti, mostruosi.
Come in un romanzo di Hemingway, lentamente, l'unico altro occidentale presente si voltò, un bicchiere in mano e un volto disteso di serena rassegnazione. Aveva un accento spiccatamente francese. Disse loro che stavano aspettando l'arrivo di un'onda. Disse loro che tutti gli altri erano al sicuro, sulla collina. Che nel villaggio non era rimasto più nessuno. Sembrava deciso a godersi l'ultimo spettacolo, sembrava che valesse la pena di pagare quel prezzo.
Ma loro erano sbarcati quella mattina e non sapevano come arrivare sulla collina.
Per la prima volta in ventotto anni, odorava la morte da vicino. Non pensò a casa, non vide il film della sua vita scorrerle davanti agli occhi, non voleva un ultimo desiderio. Riusciva solo a pensare alle immagini viste al telegiornale dell'onda, alle spiagge flagellate, ai cadaveri gonfi che imputridivano accanto alle sdraio dei turisti indifferenti, turisti, come era stata lei fino a poche ore prima. Voleva correre, correre a perdifiato verso la salvezza, ma non sapeva da che parte si trovasse.
Senza capire cosa stesse succedendo, si ritrovò sulla spiaggia, l'ultima prima di un'insenatura, che finiva proprio dove un sentiero si inerpicava tra gli alberi: lui la trascinava per mano e le ripeteva di stare calma, che sarebbe andato tutto bene.
Un ragazzo biondo, a torso nudo, spuntò dal nulla, zaino in spalla e passo molleggiato da americano in vacanza. Mostrò loro il sentiero sulla collina, fatto di corde e sassi da scalare: bastava seguirlo fino in cima per trovarsi al sicuro.
Avevano delle stupide ciabatte di gomma ai piedi, eppure riuscirono a volare.
Troppo impegnata a ricacciare le lacrime da dove erano venute, troppo bisognosa di vedere altra gente lei, che aveva sempre odiato le folle, saliva, scivolava e ricominciava a salire, sorda, cieca, muta. Quando incontrarono una ragazza sola, spaventata, appena arrivata su quell'isola si sentì improvvisamente più forte. Aveva un buon motivo per fingere di non avere paura, per dimostrarsi coraggiosa, una brava viaggiatrice, pronta ad affrontare con freddezza e spirito d'avventura qualunque situazione. Prese a scherzare in inglese con la ragazza, concentrandosi sull'accento per non fallire: parlarono del fatto che nessuno aveva pensato di portare dell'acqua da bere. Paradossale, fuggire dall’acqua senza acqua.
Giunsero in cima senza neanche accorgersene e si trovarono circondati da una moltitudine di persone, più di quante sembrava poterne contenere l'isola. Era come se si fossero trasferiti tutti lì, in una radura spelacchiata nella giungla, ad aggirarsi a vuoto, a fare domande, a cercare di attaccarsi ai cellulari per capire qualcosa. Passò un'ora, ne passarono due: sentiva crescere dentro di sé il bisogno di essere tranquilla. Le serviva per sopravvivere, per lui, per rispondere al turbinio di messaggi che arrivavano da casa. Sto bene, stiamo bene, andrà tutto bene, continuava a ripetersi come un mantra, ignorando la sete, l'urgenza di fumare, la stanchezza, sforzandosi come mai in vita sua di trovare ogni cosa estremamente divertente. Doveva riderne, era l'unica via di salvezza. Contro l'onda più letale e pericolosa, quella della follia che stava per dilagare, che l'avrebbe annientata. “La mia vita è un film di Lynch, l'ho sempre detto”. Stupide battute vecchie, inutili, stupida maschera di ferro dietro cui trincerare la paura. Solo ingannando se stessa avrebbe ingannato anche lui, gli avrebbe fatto credere di non preoccuparsi, che stava bene, che si stava quasi divertendo. Non smettere di ridere adesso.
Di colpo si spense il sole e si accesero gli insetti. Qualcuno accese un fuoco, molti si stancarono di aspettare. In lontananza si sentivano suoni e allarmi, si intravedevano le luci delle imbarcazioni. Le voci si accavallavano in un ronzio insensato.
“Le fanno restare in mare, perché è più sicuro. L'onda è prevista per le nove. Io me ne torno al villaggio, non voglio perdere la cena. Al massimo risaliamo dopo. Voi cosa fate? Dite di restare?”
Strani legami a presa rapida si stavano cementando tra il popolo della collina. Ognuno cercava negli altri rassicurazioni e risposte, ognuno cercava di convincere se stesso attraverso gli altri che sarebbe andato tutto bene.
Il caratteristico temporale tropicale della sera riportò tutti alla realtà, sottolineando con le sue gocce minute ma invadenti che si stava avvicinando la notte, nella giungla, senza acqua, né riparo.
Videro alcune persone migrare verso quello che da lontano sembrava un rudere di legno, accanto al quale qualcuno aveva acceso un falò. Si avvicinarono per capire meglio di cosa si trattasse: era una palafitta, dalla quale spuntarono alcune braccia secche e muscolose che li issarono dentro, senza esitazione.
La stanza era piccola, sudicia e quadrata, con alcune aperture simili a finestre, ma senza vetri. Era illuminata da piccole candele che insieme al respiro rendevano l'aria torrida e rovente. Al centro c'era una specie di tatami sul quale si era accampata una giovane famigliola con un neonato dalla testa enorme, placido, immutabile.
Il perimetro era già ingombro di persone sedute su stuoie di paglia, la schiena appoggiata alle pareti piene di schegge. Si aprirono un varco saltellando e raggiunsero un angolo sudicio, pieno di bucce di banana annerite e terriccio, dove si accasciarono confusi.
Oltre a loro, la ragazza inglese e un paio di sudamericani, terrorizzati. Tutti gli altri erano isolani con l'aria tra l'annoiato e il rassegnato di habituè degli allarmi catastrofici.
Presto iniziarono a circolare taniche d'acqua, a cui si attaccarono avidamente. Pensò a sua madre, che le diceva sempre di non bere dai bicchieri degli amici perché poteva prendere l'herpes, e si guardò intorno: pescatori dai sorrisi anneriti, poveri di denti ma ricchi di calore umano, donne dall'età indefinibile in sarong e ciabatte, ragazzetti vestiti all'occidentale che fumavano tabacco dall'odore curioso.
Continuò a bere. Comparve un contenitore di metallo colmo di riso bollito: le passarono un piatto di riso e uova, insistendo con cenni del capo al suo timido tentativo di rifiuto. C'erano circa quattro cucchiai per una quarantina di persone.
La luce delle candele fece risplendere gli occhi di una donna che con fare materno la invitava: “Gotta eat, eat”. Prese il piatto senza più esitare. Il solo pensiero di offenderla rifiutando il suo cibo per schizzinosità le faceva stringere il cuore.
Un ragazzo le allungò del tabacco e dovette scusarsi: non aveva mai imparato a rollare sigarette, le sue dita troppo impacciate non riuscivano a chiudere la cartina. A un certo punto, presa dalla mania di risparmiare sul fumo, si era anche comprata una macchinetta ma persino con quella la maggior parte delle volte non riusciva a combinare niente. Era troppo imbranata.
Il ragazzo sorrise e dopo poco tornò con una sigaretta già fatta. Si avvicinò a una delle aperture a fumare, sperimentando il concetto di buio assoluto. Era tutto così assurdo, compreso il fatto che in quel momento, tra quegli sconosciuti si sentisse assolutamente bene. Come se il fatto che un'ondata devastatrice stava per abbattersi sull'isola radendo al suolo tutto non esistesse più. Come se non avesse lasciato nel bungalow tutto, anche portafogli e passaporto. Come se non ci fossero state delle persone a casa che stavano impazzendo al pensiero di lei in mezzo a un cataclisma. Era solo lei, la notte nella giungla, la pioggia sottile che batteva sul tetto della capanna, le ninnananne intonate per fare addormentare il neonato Charlie Brown. C'era pace.
I ragazzetti cominciarono a mettere su musiche improbabili dai loro telefonini. Tutti chiacchieravano, ridevano, cantavano, anche. Sembrava di essere in uno di quei bivacchi americani da film dell'orrore per teenagers. Un mostro sarebbe potuto sbucare fuori da un momento all'altro con la sua motosega insanguinata.
Ma c'era qualcosa di molto più terribile in agguato lì fuori: se ne ricordarono quando gli isolani si fecero seri. Stavano ascoltando il rombo. Tutti erano muti nella capanna, la parola impronunciabile appena sussurrata riempiva il poco spazio rimasto, mentre i volti, tesi nel cercare di capire, assumevano un'aria spettrale alla luce sempre più fioca dei lumini moribondi. Fu il momento più incredibile della sua vita.
Il grigiore dell'alba penetrò discretamente nella capanna: rotolandosi nell'asciugamano che le aveva lanciato qualcuno la notte precedente, si stiracchiò. Dolori dappertutto, ovviamente. Morsi di zanzara devastanti, nonostante i due pipistrelli che avevano deciso di trascorrere la serata con loro. Ma avevano dormito. Lui aveva appoggiato la testa sulle ciabatte e il suo petto le aveva fatto da cuscino.
Mentre si scioglievano lentamente dal groviglio di stuoie e gambe, gli isolani, rapidissimi, raccoglievano le loro cose e sfilavano silenziosamente nella giungla, verso casa.
Avrebbe voluto abbracciarli uno ad uno, avrebbe voluto ringraziarli, ma come al solito non riuscì a fare niente e rimase lì, impalata, a guardarli andare via tutti composti.
Scesero scivolando nel fango per lo stesso sentiero che il giorno prima avevano percorso con il cuore in gola: era interminabile, adesso.
Si sentiva come al ritorno da una notte di ebbrezza, stordita, incerta di aver vissuto o aver sognato.
La sabbia sempre immacolata, l'acqua trasparente e già tiepida, i bungalow di legno scuro. Era tutto ancora lì, perfetto, come il giorno prima.
Sedettero uno accanto all'altra sulle sdraio. C'era ancora silenzio assoluto, ma era il silenzio di mille sonni tranquilli.
Si guardarono negli occhi segnati: erano nel posto giusto, al momento giusto.
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