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Immagine del redattoreCamilla Maccaferri

Mia nonna è un numero



Mia nonna è un numero scritto sull’avambraccio, del braccio sinistro credo, o forse era il destro, non ne sono certa.


Io sull’avambraccio sinistro ho un tatuaggio con le iniziali dei miei nonni, ma nascoste in un groviglio di rovi, il cerchio della vita, i Nontiscordardime, insomma, una cosa che se vista dall’esterno è irriconoscibile e, quando mi chiedono cosa rappresenti, se ho voglia di sentirmi bruciare gli occhi e tremare la voce lo racconto, altrimenti dico che è un disegno di una mia cara amica. Il che poi è verissimo.


Mia nonna è un numero che non ricordo nemmeno, però nella foto che c’è in casa dei miei, per una strana casualità, indossa una vestaglia a righe verticali, sul bluette, e io da piccola andavo in confusione totale, perchè mi raccontavano di quando era stata nei campi di concentramento con la divisa a righe. Sapevo che in quella foto era molto più vecchia di quando era stata in Germania, però quella vestaglia, nella mia testa, si sovrapponeva alla divisa degli internati e, forse, pensavo che, dopotutto, quella divisa del cazzo non era mai riuscita a strapparsela di dosso, per tutta la vita.


Mia nonna mi assomiglia, mi dicono da sempre, però l’unica cosa bella davvero che aveva, i lunghi capelli neri, mossi e setosi io non li ho: ho delle specie di spaghetti fini, che poi ho massacrato di tinture e, soffrendo da quando sono ragazzina di tricotillomania (significa che mi strappo di proposito i capelli quando sono stressata, cioè praticamente sempre), fanno anche più schifo del dovuto.


Porto il suo nome, ho un tatuaggio dove ce l’aveva lei, o al massimo dall’altra parte (ma tanto non so distinguere la destra dalla sinistra), e non ho altro in comune con lei, se non il fatto che la sua sofferenza, distillata, fermentata, rifermentata e invecchiata in un paio di generazioni, è ancora qui oggi che mi consuma l’anima.


Per quei cazzo di nazisti nel quadro che aveva dipinto mio padre e che sta appeso in casa dei miei, nella sala da pranzo grande dove si celebrano tutte le occasioni, dove si festeggiavano i miei compleanni da piccola, quei due nazisti di merda che calpestano corpi morti e, subito dietro, il ritratto di mia nonna ammanettata. Con la vestaglia bluette a righe e gli occhi tristi da cane bastonato, come nella foto in cui si sforza di sorridere.


Per gli attestati tricolori agli eroi della seconda guerra mondiale appesi in salotto, le medaglie, i libri, le riviste del triangolo rosso, le celebrazioni del 25 aprile dove dovevo leggere, al microfono, la sua testimonianza, con la gente che mi guardava, “è la nipote, poverina, si chiama come lei”.


Per la tomba di mia nonna, lontana da tutti i familiari, lontana dai suoi genitori, da suo marito, lì, tra gli eroi della Resistenza, gente dispersa nei campi tedeschi gelati, gente passata per il camino, gente morta sparata sul piazzale delle scuole elementari il 25 aprile, le stesse scuole che ho frequentato. Sconosciuti, accomunati per l’eternità da un destino di merda. Eroi. Martiri. O forse gente che stava nel posto sbagliato al momento sbagliato. Eternamente soli.


Mia nonna è la solitudine che per tutta la vita si è portata dentro, l’orrore che l’ha consumata lentamente, come una muffa tossica, e nessuno all’epoca prevedeva di accompagnarla in un percorso di riabilitazione per il dolore post-traumatico, il ritorno a casa dopo quello che ha vissuto, scheletrica, reietta, impura, non voluta da nessuno perché “chissà cosa le avranno fatto, poverina”. Siamo tutte poverine, noi Camille di casa.


Quella solitudine che anche io provavo quando si studiava la guerra a scuola e io vedevo lei, quella vestaglia a righe bluette e quegli occhi tristi da cane bastonato, e pensavo che per gli altri era solo una pagina di sussidiario da imparare a memoria e per me, invece, era scritta col sangue.


Quella rabbia viscerale che mi divorava quando da ragazzini qualcuno disegnava le svastiche credendosi divertente, ribelle, e io mi sentivo oltraggiata e allo stesso tempo pensavo: “Ma perché a me non è concessa la leggerezza di sbattermene i coglioni, perché devo sentirmi così umiliata e, allo stesso tempo, obbligata a sentirmi indignata per non tradire il mio sangue?”


Quel freddo interiore quando mi sentivo dire: “Eh, ma anche mio nonno ha fatto la guerra”, con sufficienza e io volevo solo urlare sì, brutta testa di cazzo, ma non è stato nei lager a vedere la Gestapo che giocava a pallavolo con le teste dei bambini, non ha visto gli ufficiali rincorrere gli ebrei con l’accetta e chi spaccava più crani vinceva, non è stato nell’infermeria dei medici pazzi con una cimice nell’orecchio e non si è sentito dire: “Sei fortunata perché di solito chi entra lì dentro non esce più, ma tu sei uscita e ti sei pure salvata, perchè nel frattempo hanno gasato tutto il tuo dormitorio”.


Quel senso di isolamento che sento quando ancora oggi mi chiedono: “Ma se non sei ebrea perché tua nonna è stata nei lager?” E io mi sento anche in colpa per non essere ebrea, per non avere il diritto di portare dentro l’eredità dell’orrore.


Quel senso di disagio estremo che provo ogni volta che mi sento fuori luogo - cioè ogni giorno, ogni minuto, ogni secondo della mia vita - e poi penso a quanto sono stronza a sputare in faccia ai miei privilegi da bianca borghese, quando solo una manciata di decenni fa il sangue del mio sangue marciva a Bergen Belsen ed è solo per una milionata di fortunati eventi che sono qui, io, ora.

Sarebbe bastato un secondo, un clic di una pistola, un capriccio di un coglione esaltato con una divisa da cretino, un raptus di un cane aizzato, a non vedermi qui, ora. Ed è un circolo vizioso di sensi di colpa che si innestano uno sull’altro come un Tetris folle, come quella barzelletta che mi raccontarono alle medie di Hitler che giocava a Tetris con gli ebrei gettandoli dal burrone e io avevo riso, sentendomi una merda, ma avevo riso perché il male si neutralizza solo ridendo, no? Come Chaplin ne Il Grande Dittatore. Ma non ho mai potuto chiedere a mia nonna se l’avesse fatta ridere. Forse a chi ha marciato nella neve in mezzo ai morti, in mezzo alla cenere dei corpi carbonizzati, Chaplin non faceva ridere per un cazzo.



Mia nonna è un numero e come tutti i numeri è unica e sola. E anche io sono così, unica e sola, a raccontare una storia che non è e non sarà mai la mia ma che, maledetto sia Dio o chiunque abbia permesso tutto questo, ancora, dopo quasi ottant’anni, mi strappa le viscere e mi costringe a prendere medicine per non pensare, a sedermi davanti a uno psichiatra e spendere novanta euro l’ora (novanta fottuti euro che vorrei mettere in conto agli eredi di Goebbels, se ce ne sono) per capire come dipanare questa cazzo di matassa di filo spinato che mi si è aggrovigliato nel cervello.


A furia di fissare il baratro. Le stelle. Il tricolore. I triangoli rossi. Le medaglie. Le righe. gli avambracci. I numeri.


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