Dieci film
- Camilla Maccaferri
- 28 mar
- Tempo di lettura: 6 min
Vincenzo si schiarisce la voce sommessamente ma decisamente, per attirare la mia attenzione. Concentrata al volante, non mi sono accorta che era lì da qualche istante, tanto la sua presenza è discreta, come quella di un foglio sottile che si appoggia volteggiando pigramente su un vecchio scrittoio. Una presenza di carta velina.
È uguale a come lo avevo visto l’ultima volta: il maglione girocollo grigio scuro da cui spunta una camicia bianca sportiva, il trench color sabbia, i Levi’s blu, lo zainetto nero fra i piedi, le mani nervose, i lineamenti del viso minuti, l’espressione seria e sempre un po’ corrucciata, gli occhiali tondeggianti dalla montatura di metallo, i capelli corti, folti, sale e pepe.
“Ciao”, dice semplicemente. La sua voce è esattamente come la ricordavo, come se lo avessi salutato il giorno prima in facoltà.
Esito, non so se dargli del lei o del tu: adesso, ho l’età che aveva l’ultima volta che ci siamo incontrati nel suo studio per parlare del dottorato che avrei dovuto iniziare con lui. Non sono più una ragazzina insicura con i capelli rovinati dalle tinture: sono un’adulta insicura con i capelli rovinati dalle tinture.
“Buon…ciao”, gli rispondo alla fine. “Non sapevo che fossi qui”.
“Neanche io. Non so mai dove si va”.
Vorrei chiedergli tante cose, ma la voce stenta a uscire e mi sento così brutta e goffa, come sempre quando sono davanti a qualcuno di cui ho stima, un metro e mezzo di inadeguatezza.
“Ti ricordi ancora”, dice lui rompendo il silenzio, “dell’elenco dei dieci film che vi avevo fatto vedere?”
“Sì”, rispondo, felice che ci sia sul piatto un argomento concreto da cui partire. Sui primi vado a colpo sicuro, perché me li ricordo bene, tutti in bianco e nero, visti su VHS scassate e tremolanti nei laboratori impolverati dell’Università, qualche volta con l’aiuto dell’avanti veloce perchè si prenotava la postazione a tempo. O almeno questa era la scusa. Un universo analogico che sembra appartenere a un passato immaginario, eppure tanto vicino da poterlo quasi toccare. “Caligari, Ottobre, Ombre rosse, Il grande sonno… ah bè, naturalmente Quarto potere, poi…” Inizio a rovistare più affannosamente nei meandri della memoria e cerco di nascosto di cogliere qualche indizio, lanciandogli occhiate furtive mentre lui mi guarda con un sorrisetto compiaciuto.
“Ah! Certo, À bout de souffle! Poi Hitch, per forza…aspetta era Psycho, no, Vertigo!”
Annuisce senza perdere l’espressione compiaciuta e facendo un piccolo gesto come a dire vai avanti.
A quel punto il campo si restringe ed è sempre più difficile improvvisare, perciò cerco di attaccarmi alla logica.
“Dunque, sicuramente c’era qualcosa del Neorealismo e poteva essere Paisà o Roma città aperta..” Lo guardo ancora, in cerca di una conferma.
“Alternavo l’uno e l’altro. Ogni tanto mi veniva la tentazione anche di metterci Germania anno zero, ma poi temevo che fosse troppo. Eravate così giovani”.
“Sì”, mi affretto a cambiare discorso, a disagio, “alternavi anche Quarto Potere con gli Amberson, no?”
“Esatto, per variare un po’. Ma continua, ne mancano ancora due, adesso è difficile”, gongola con una punta di sadismo.
Prendo fiato per guadagnare tempo, vago nel mio immaginario di ventenne, tra le birre sgasate nella plastica e le pause sigaretta, tra le foreste di fotocopie e gli interminabili pomeriggi in biblioteca a sforzarci di non ridere.
“E poi qualcosa dei Coen, per forza…sì, Barton Fink. Scelta strana”, mi scappa detto.
“Scusa, perchè?” La sua voce si è innalzata di qualche tono, gli capitava anche a lezione, quando si innervosiva o quando gli veniva da ridere, come a tutti i timidi.
“Fai una selezione dei dieci film più importanti della storia e ci metti Barton Fink che, insomma, sì, è interessante però…”
“No, no, io mica ho detto che sono i dieci più importanti in assoluto. Sono importanti secondo me”.
“Sì ma tra tutti i film dei Coen, se proprio volevi… che poi a dirla tutta, inserirli tra i dieci registi da conoscere per forza, non so, non è… azzardato?”
“Forse, ma tu dovresti sapere meglio di me che le passioni accecano. Io li dovevo mettere e Barton Fink mi sembrava interessante per voi perché parlava dei meccanismi hollywoodiani, vi dava un’idea di come nasce un film, anche se poi va a parare altrove”.
“Curioso, perché sai qual è diventato il mio preferito dei Coen? A Serious Man. E sai perché? Mi fa pensare a te”.
L’aria compiaciuta si distorce in un broncio.
“Non l’ho visto”.
“Lo so. È uscito nel 2009. Ma a dicembre”, aggiungo subito, innervosita. Improvvisamente mi sento incredibilmente stupida e provo a cambiare discorso. “Michael Stuhlbarg comunque magistrale, peccato non abbia avuto il successo che meritava”, ma mi interrompe, mantenedo il cipiglio.
“Perchè?”
“Perchè… cosa?” Prendo tempo mentre annaspo.
“Perchè ti fa pensare a me?”
“Perchè… non so, dovrei rivederlo ma… immagino perchè parla di un uomo che è molto…” Vorrei trovare le parole per rispondere senza dire qualcosa di cui potrei pentirmi, di sconveniente.
“Perchè parla della inutile ricerca di un senso nella tragicomica irrazionalità della vita. E perchè è divertente e disperato”, mi viene in aiuto. Rimango ancora un po’ in silenzio, fingendo di concentrarmi sulla strada, poi mi decido a chiedere: “Ma come lo sai se… non l’hai visto?”
“Beh, ho letto le recensioni!” Scoppia a ridere, divertito, e per un attimo mi rilasso anche io.
“Sono contenta di vederti”, riesco finalmente a dire, “sai quante volte in tutti questi anni ho visto un film e ho avuto bisogno di chiederti cosa ne pensassi tu?”
“Ma sono sicuro che, ogni volta, lo sapevi cosa avrei pensato. Sono sicuro che abbiamo discusso a lungo tutte le volte che ti sei rigirata le immagini in testa, prima di scrivere un articolo, negli interminabili monologhi che fai a mezza voce mentre cammini o fai le faccende di casa o prima di dormire, per prepararti a mettere i pensieri sulla pagina”. Mi guarda con il sorrisetto compiaciuto che è tornato a solcargli il viso. “Sbaglio?”
Scuoto la testa senza staccare gli occhi dal volante.
“Comunque, ne manca ancora uno”, mi strappa al silenzio continuando il suo giochino del ricordo. Mi chiedo se sia solo un espediente per portare avanti la conversazione o se davvero gli interessi misurare la profondità del solco che ha tracciato, lo spessore della cicatrice, l’ampiezza dello squarcio. Uno strappo violento mai ricucito nelle pagine del nostro tempo ozioso in cui cercavamo pigramente ma pervicacemente di nasconderci dall’età adulta.
“Non mi ricordo, davvero”, mi spazientisco. Il pensiero di essere stata sorpresa alle spalle nel mio nascondiglio spensierato da quella telefonata in un venerdì mattina di marzo mi ha irritata. Mi ha stanata lui. È stato lui ad aprire quello squarcio.
“Ma sì che ti ricordi… ti dò un piccolo indizio? Il set”.
“Mi prendi in giro, ma che indizio è il set, se stiamo parlando di film?”
“Dai su! Siamo in Francia…”
“Ah! Oddio!” il ricordo arriva all’improvviso e ha il broncio arruffato di Jean-Pierre Léaud e l’odore delle sigarette che fumava qualche amore perduto per strada. “Effetto notte!”
“Oh, vedi che ci sei arrivata? E dì la verità, è stato quello che vi ha fatto venire voglia di girare i corti?”
“Non ci ho mai pensato. Ci siamo divertiti tanto però”.
“Perchè avete smesso?”
“Non c’è un perchè. La vita, le cose, la videocamera del dipartimento che abbiamo scassato…”
“Anche io mi divertivo un sacco a girare i corti”.
“Eri anche bravo, e io non lo sapevo! L’ho scoperto… dopo”.
Una cortina di gelo si abbatte all’improvviso nell’abitacolo. Stringo il volante tra le dita fino a vedere le nocche che si imbiancano, per farle smettere di tremare. Perchè ogni volta che mi agito mi sento arrossire e mi vengono le lacrime agli occhi, come quando ero bambina?
“Ti sei arrabbiata con me, perchè ti ho abbandonata”.
E, come se finalmente si fosse rotto un guscio vecchio di tredici anni, ho la mia occasione.
“Tantissimo. È andato tutto a rotoli quando te ne sei andato. Mi sono chiesta così tante volte perchè. Mi sono sentita persa”.
“Eppure sei qui”.
“Sì, ma io volevo diventare come te, insegnare cinema, scrivere libri di cinema, e invece ho mollato tutto, ho fatto altre cose, non scrivo neanche più. Cioè, scrivo, ma poco”.
“Per colpa mia?”
“Ho fatto il dottorato per te, ma senza di te non ci credevo più. Mi sembrava tutto diverso da come lo raccontavi tu, tutto distante. Non avevo nessuno con cui potevo parlare come con te. Mi sono spaventata, era come un set senza luci. Se ci fossi stato tu…”
“Sarebbe stato diverso? Tu credi?”
Non so se sia una domanda seria o una provocazione, ma mi spiazza e non so cosa rispondere. Pensavo di volermi arrabbiare, ma la rabbia si è sgonfiata, è scappata veloce come sabbia tra le dita e adesso ho le mani vuote.
“Ma adesso, non stai bene?”, continua.
“Sì ma… è un altro film”.
“Che stai scrivendo tu”, sorride.
“Vincenzo, io ho trentotto anni adesso”, riesco a dire tra le lacrime. Lui annuisce, si passa la mano tra i capelli.
“È un’età difficile”. Sorride, ma gli occhi sono tristi, lontani.
Allunga il dito per accendere la radio e parte Through the barricades degli Spandau Ballet.
“Ma pensa. Proprio quella che ti ho sentito fischiettare in facoltà una volta, e da allora…”
Mi giro a guardarlo. Il sedile è vuoto. Mi vengono in mente i titoli di testa di A serious man. Ricevi con semplicità tutto ciò che ti accade.
Continuo a guidare, anche se non so dove sto andando.
Comentarios